di Alessandro Siciliano
Il titolo di questo convegno,* “volere un figlio”, non può non far pensare alla differenza che corre tra due termini che sono simili nel senso comune e spesso antitetici in psicoanalisi: “volere” e “desiderare”. Mi pare cioè che questo titolo sia messo lì apposta per potersi interrogare, nell’ambito della filiazione e della generazione, sul rapporto tra la dimensione del desiderio, frequentata ampiamente nella letteratura e nella teoria psicoanalitica, e un’altra dimensione, forse meno frequentata in psicoanalisi, quella della volontà.
Nel suo scritto Kant con Sade, Lacan in fondo colloca il volere dal lato del godimento. Parla di “volontà di godimento”, in riferimento alle operazioni dei personaggi del divin marchese. I personaggi di Sade, potremmo dire così, sanno bene cosa vogliono: il godimento. Non desiderano il godimento, che solitamente è quello che fa il nevrotico, che il godimento lo sogna, di notte come di giorno. Lo vogliono, lo praticano, lo attuano. Lacan preleva dalla Filosofia nel boudoir questa massima sadiana: “Ho il diritto di godere del tuo corpo, può dirmi chiunque, e questo diritto lo eserciterò, senza che nessun limite possa arrestarmi nel capriccio delle esazioni ch’io possa avere il gusto di appagare”. Il godimento è dal lato della certezza, una certezza particolare, che affonda le radici nel capriccio.
E il desiderio? Cosa vuole, cosa sa il desiderio? Potremmo dire che il desiderio non sa cosa vuole, avendo il proprio oggetto alle spalle, anziché davanti a sé. È una distinzione che Lacan fa valere nel seminario sull’angoscia: il desiderio ha davanti a sé una molteplicità di cosiddetti oggetti mira, che si danno il cambio gli uni con gli altri, e il discorso del capitalista agisce e prospera proprio su questo scambio continuo. Poi c’è l’oggetto causa del desiderio, che il soggetto si lascia alle spalle, che non è ciò che il desiderio prende di mira, ma ciò da cui il desiderio è causato, spinto, innescato.
La posta in gioco di una psicoanalisi, dice Lacan, consisterebbe allora in una riconciliazione tra queste due dimensioni, il volere e il desiderare, che generalmente si muovono in direzioni opposte. Il soggetto nevrotico sarebbe colui che desidera ciò che non vuole e vuole ciò che non desidera. Il soggetto di fine analisi sarebbe, per Lacan, colui che vuole ciò che desidera e desidera ciò che vuole. Ma è solo tramite l’esperienza analitica che si dà la possibilità di frequentare la divisione tra volere e desiderare, mentre nel tran tran della quotidianità è comune che i due movimenti siano scambiati l’uno per l’altro, almeno fino a quando non sopraggiunge una qualche forma di sofferenza sintomatica.
Rispetto alle questioni che la filiazione pone – volere o desiderare un figlio, nei termini del nostro convegno – mi interessa sondare un termine terzo: “adottare”. Tra il “lo voglio!”, con esclamativo, e il “lo desidero?”, sempre all’interrogativo, tra una volontà che non faccia i conti con la propria causa inconscia, e un desiderio che può talvolta smarrirsi nei garbugli della sua propria metonimia, le suggestioni che il termine “adottare” porta con sé mi sembrano andare in una direzione interessante.
L’etimo viene dal latino adoptare, composto da ad e optare, cioè scegliere a, scegliere per. La questione che mi son posto è questa: quando si parla di genitorialità, filiazione, desiderio di un bambino, non è sempre, innanzitutto, col concetto di adozione che occorre fare i conti? Cioè, lungi dal cedere all’idea di un qualsiasi padroneggiamento, da parte della volontà dell’io, del processo tramite cui si viene istituiti come genitori e come figli, non si tratta sempre, invece, del fare i conti con qualcosa di radicalmente sconosciuto, imprevedibile, impossibile, persino traumatico, dunque reale? Non si tratta di incontrare qualcosa, qualcuno, che nel mentre mi implica e mi chiama in causa, mi è anche profondamente estraneo? Non è forse il concetto di adozione, cioè il decidersi per, lo scegliere per, l’acconsentire a qualcosa di reale, la condizione preliminare a qualsiasi istituzione familiare, qualsiasi parentela?
Per parlare di filiazione e genitorialità, il concetto di adozione mi è sembrato un buono spunto per prendere in conto ciò che cade fuori dal rapporto genitore – figlio, pur essendogli del tutto inerente. Adottare significa scegliere, fare proprio qualcosa o qualcuno di radicalmente non proprio, altro, estraneo. Eccoci allora, rispetto ai piani del volere, più a contatto con le decisioni dell’inconscio rispetto a ciò che è reale.
In una conferenza del 1976 presso la Yale University, parlando del bambino, Lacan dice che esso “non riconduce all’originario ma piuttosto al reale”. Lungi cioè dal ricondurre a qualunque mitologia sulle origini, a una qualche scena simbolico-immaginaria che inquadri ordinatamente ascendenza e discendenza, il bambino ha più a che fare con qualcosa di impossibile, senza legge, senza ordine, spoglio di qualsiasi senso, che con Lacan siamo soliti chiamare “il reale”. Il bambino è reale nella misura in cui porta in sé qualcosa di incommensurabile rispetto all’ideale, qualcosa di totalmente estraneo e spaesante, qualcosa che c’è e che esiste fuori da ogni stampo, che eccede il modello generativo. È su questo reale che, quando le cose vanno per un certo verso, può agire la potenza formativa del desiderio dell’Altro, i genitori generalmente. Coloro che sceglieranno, che si decideranno per l’adozione di questo bambino reale, gli parlano e ne parlano, e parlandogli e parlandone lo prendono dentro il circuito della parola e del desiderio, lo sollevano e allevano, facendone il soggetto di un discorso che gli si tiene intorno. Questo discorso forma e informa il reale del bambino. L’Altro, col suo desiderio, parla al reale e il reale risponde. Il soggetto, dice sempre Lacan, è la risposta del reale.
Questa dimensione reale del bambino è certamente non in primo piano nei normali casi di procreazione. Qui di solito abbiamo una coppia che si decide per avere un figlio, che prima ancora della nascita è già preso in un discorso e un desiderio. Questa antecedenza del progetto desiderante eclissa il fatto che quel bambino lì – sognato, voluto, desiderato, rappresentato prima ancora che si presenti – abbia in sé qualcosa di un reale inassimilabile al senso. Questo progetto intorno al bambino fa cioè dimenticare che il bambino è, oltre che e prima che progettato, gettato nel mondo, come si esprime Martin Heidegger. L’esser gettato nel mondo del bambino reale viene preso in un progetto, in un desiderio genitoriale come motore di evoluzione, di emancipazione e di soggettivazione. Ma questa gettatezza non viene mai assorbita pienamente nella progettualità, non si trasforma tutta in progetto umano, non passa tutta nella dialettica del desiderio, cosicché qualcosa si produce come resto, come scarto del processo di soggettivazione, il reale appunto.
D’altro canto, capita invece spesso di incontrare, lavorando nelle istituzioni di accoglienza e cura per minori, dei bambini in cui il reale è in primo piano. Bambini incastrati nel reale, a bagno nel reale, bambini che non hanno incontrato, o non hanno voluto incontrare, il desiderio di un Altro che possa emanciparli dal reale. Spogli di senso, nudi di sembiante, corpi non acchiappati da alcun discorso, questi bambini non rispondono a partire da una posizione soggettiva, cioè da un margine di libertà, uno spazio di azione, da cui articolare la propria parola come risposta. Vivono invece in presa diretta con il reale, motivo per cui danno spesso adito a fantasie come quella del bambino selvaggio, dei figli della natura, o peggio ancora a divagazioni sull’animalità e la bestialità. Può capitare, ad esempio, che quella che Freud chiamava “l’urgenza della vita” in questi bambini possa manifestarsi non in bisogni e domande, ma senza forma, come pura eruzione, puro grido, non articolata in una dialettica di domanda e risposta, come “ho fame”, “ho sonno”, “ho mancanza di qualcosa”. Sono bambini che pur parlando e dicendo tante cose, non arrivano a beneficiare degli effetti concreti del loro stesso parlare, giacché il parlare non li impegna in una responsabilità soggettiva, non li costituisce come soggetti di fronte a un Altro da cui si desideri che quella parola sia riconosciuta come vera. Il piano degli enunciati, dei detti, in questi bambini, spesso non ha alcun punto di ancoraggio, di precipitazione in un luogo dell’enunciazione, in un luogo da cui si parla. È così che, talvolta, si può ad esempio osservare che a orientarli nel parlare sia più il suono, che non il senso.
Nelle istituzioni di cura e accoglienza per minori si vede dunque meglio, a occhio nudo, la dimensione dell’esser gettati nel reale. La rete del progetto desiderante, del desiderio dell’Altro, ha più o meno fallito nel prendere, nell’adottare quel bambino, e l’istituzione si dà come una sorta di secondo tempo in cui giocare la partita della soggettivazione. È in questa situazione che siamo costretti a fare a meno del mito delle origini. Il bambino che giunge in istituzione ha sempre una provenienza oscura, le cui tracce sono spesso cancellate. Relazioni cliniche, anamnesi e biografie non riescono mai a ricostruire la catena degli eventi di cui quel bambino è effetto. Come nella leggenda di Kaspar Hauser, il bambino arriva invece come un meteorite, da luoghi e tempi sconosciuti.
Si gioca qui allora la scommessa: di fronte al bambino reale, orfano, naufrago, riuscirà l’istituzione ad accogliere, ad adottare questa domanda che non è ancora una domanda? Riuscirà l’istituzione a dire un “sì incondizionato” al bambino (espressione che devo a Nicola Purgato)? Riuscirà l’istituzione, parlando a e parlando del bambino reale, a suscitare da quella parte un effetto-soggetto, una risposta del reale? E soprattutto: quanto e come il “No” del primo tempo della vita, del tempo in cui il buon incontro con un Altro ha avuto i suoi inciampi, si farà sentire nel secondo tempo dell’incontro con l’istituzione?
Sono questioni tanto decisive quanto scottanti, sulle quali le equipe degli educatori si spaccano la testa, in primis perché incontrare qualcosa del reale è sempre un’esperienza traumatica. Ci si difende, di fronte al reale, si costruiscono tutta una serie di risposte che servono per parare l’irruenza, l’effrazione di ciò che buca la realtà. La distinzione lacaniana tra reale e realtà sta tutta qui: la realtà è il luogo in cui il reale è bandito, messo alle porte. La costruzione della realtà necessita il silenziamento del reale. Il discorso del padrone, che è un altro modo di dire la realtà, colloca il reale nella posizione dello scarto, del resto. Incontrare il reale nelle sue sembianze di scarto e di resto, veder emergere lo scarto là dove non dovrebbe stare, è il massimo dell’orrore per il discorso del padrone, cioè per la realtà costituita.
Potremmo allora pensare che l’incontro con il bambino incastrato nel reale sarà tanto più traumatico, quanto più si è presi nel discorso del padrone. Un simile incontro, per potersi dare, per non sfociare nel puro e semplice panico, costringe a un cambio di discorso, un’altra prospettiva.
L’incontro col bambino reale, fuori da ogni ideale, libero rispetto al desiderio dell’Altro, sganciato da ogni legame sociale, è traumatico nella misura in cui richiama, fa risuonare in chi lo incontra quei confini, quelle soglie, quei limiti che in lui stesso separano ciò che è ammesso nella scena della realtà da ciò che ne è fuori in quanto osceno, in quanto causa di orrore. Ed è qui, credo, che il discorso psicoanalitico può aiutare, perché nel discorso analitico per come lo formalizza Lacan, lo scarto è nel luogo dell’agente, vale a dire che l’oggetto-scarto è preso come motore di un desiderio di sapere, come ciò che causa il desiderio di sapere. Isolare il proprio orrore di sapere, dice Lacan, è la posta in gioco (e anche l’entusiasmo) di un’esperienza analitica.
Non si tratta di pensare a un’istituzione che funzioni secondo il discorso analitico, sarebbe bizzarro. L’istituzione riconduce sempre a una realtà stabilita, a un buon funzionamento, a una certa circolazione normale. Si tratta invece di farsi ispirare, in istituzione, da ciò che avviene in una psicoanalisi, in cui si cerca di saperne di più su ciò che ne è del reale nella propria vita, su ciò che ne è della causa rimossa, della causa abietta, di ciò che tanto più è respinto, tanto più spinge, causa e muove. Pensare che il bambino reale, orfano, abietto sia fatto della stessa pasta di quel reale impossibile che un’analisi tenta di avvicinare e bordare, può condurre a una nuova curiosità e a una collocazione di quel bambino reale nel luogo della causa di un desiderio di sapere, per quel soggetto collettivo che è l’equipe di lavoro.
La supposizione di un soggetto nel bambino reale, cioè la supposizione di qualcosa che si cela dietro i comportamenti e gli agiti manifesti, potrebbe allora far sì che il soggetto dell’equipe si interroghi e si metta a parlare del soggetto nel bambino, attivando così quel meccanismo tutto umano grazie a cui dal reale della frammentazione del corpo e del pensiero possa emergere una risposta, un principio di organizzazione di una risposta di fronte alle domande e al desiderio dell’Altro.
A proposito del rapporto tra soggetto e parlare, Jacques-Alain Miller precisa nel suo corso Capisaldi dell’insegnamento di Lacan che il soggetto non è tanto colui che parla, ma innanzitutto colui di cui si parla. “Anche il bambino ritardato è un soggetto. È comunque strabiliante vedere tutte quelle équipe terapeutiche riunirsi per parlare di un bambino che non parla, équipe che traggono la loro sussistenza da simili bambini. È nota l’importanza assunta nelle istituzioni da questi conciliaboli, dove il personale curante si intrattiene sulle proprie difficoltà e impasse, dubitando al contempo della qualità di soggetto di quello di cui parlano. Ma se questa qualità la verificano tutto il tempo! La verificano precisamente in quanto mobilita la loro verbosità”.
* Intervento tenuto nell’ambito della serata “Pipol, tra il primo e il dopo”, organizzata dalla Segreteria di Bologna della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi.